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Se il calcio merita un romanzo boemo

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Pubblichiamo un articolo di Giuseppe Sansonna, uscito su «Alias», sulla promozione in serie A del Pescara di Zeman.

di Giuseppe Sansonna

Gli enfants terribles del Pescara lo artigliano e lo scagliano in aria, riagguantandolo euforici. Zeman non oppone resistenza, rassegnato all’affetto selvaggio dei suoi. Conquistare la serie A rende lecito ogni eccesso. Si può persino lasciar scorrere due lacrime pesanti sul fitto reticolo di rughe, pudicamente diluite nella pioggia. Commoventi come il cedimento emotivo di un androide, di un replicante sensibile come Rutger Hauer, mentre i bagliori elettrici di Marassi e il cielo di piombo completano il set da Blade runner.

“Piango per Franco Mancini, perché non è qui a festeggiare con noi una vittoria anche sua”. Mancio, il figlio materano, che irradiava carisma tra i pali e in un’area smisurata, dilatata dalle strategie boeme ai limiti del centrocampo. Una stella fissa, nelle mappe zemaniane. Ogni portiere doveva somigliargli, se lui in persona era indisponibile. È morto a fine marzo, per un infarto assurdo, a quarantatre anni. Stava acuendo i riflessi ed esorcizzando le paure dei nuovi portieri zemaniani, Anania, Ragni e Cattenari. Vent’anni fa era l’estremo difensore del Foggia, la prima Zemanlandia, approdata in serie A a suon di gol e verticalizzazioni estreme. Trainata dal trio puntuto, Baiano, Signori e Rambaudi. All’epoca le stelle dell’attuale Pescara, Verratti, Insigne e Immobile,  vagivano in neonatologia o brancolavano ignari nel liquido amniotico. “Più che un padre, sono diventato un nonno”, sorride guardandoli. Tra la promozione foggiana e quella odierna, vent’anni in chiaroscuro. Nessun altro campionato vinto, sentenziano gli aridi almanacchi. La costante bellezza del gioco non gli è bastata a schivare addii e rimpianti.

L’avversità al doping e ai poteri nemmeno tanto occulti del calcio consegnerà Zeman ad un graduale esilio, ai silenzi ovattati dei campi da golf. “Ho cambiato erba” raccontava a se stesso negli ultimi anni, con ironia obliqua, picchiando forte sulle palline bianche. Partite alternate alle mattine passate al bar di Collina Fleming, “Il mio ufficio”,  macinando sigarette e giornali sportivi. Onnisciente come sempre, a livelli di Rischiatutto, persino sui campionati minori. In vista di un ingaggio ventilato dalla stampa, ma perennemente destinato a sfumare. Finché, nel 2010, il Foggia non si ripresenta nel suo destino. Annunciato, come un tempo, dalla napoletanità suadente di  Don Pasquale Casillo. Tornato in possesso della squadra rossonera, nel frattempo sprofondata in Lega Pro e deciso come John Belushi a rimettere insieme la banda, superate le traversie giudiziarie.  Zeman, prossimo ai sessantaquatro anni, sente che è l’ultima fiche, prima del definitivo oblio. Accetta, ma l’incanto dura pochi mesi. I ventenni a disposizione sono quasi tutti in prestito, raccolti con un budget di diecimila euro. “Non si sentivano tatuata addosso la maglia del Foggia” constata Zeman.

Il suo nuovo Foggia gioca un buon calcio, segna gol a raffica, ma perde alcune partite chiave. Nel finale la squadra si sfalda, mancando l’obiettivo dei play off. Per Zeman, un fallimento relativo: ha mostrato di non essere un anacronismo vivente, di produrre un calcio ancora pieno di senso. Se ne accorge De Cecco,  re della pasta, patron di un Pescara ancora nostalgico dell’effervescenza di Galeone. Da lui Zeman pretende un premio promozione solo per la volata diretta in serie A, eludendo la grana dei play off . Altra condizione, una casa sulla riviera Nord, con vista sui palmizi, sui lidi in serie e su quel lungomare dove i pescaresi corrono a frotte dalle prime luci dell’alba: “Si allenano duro, eppure nessuno li paga” constata fumando dal suo balcone. E pensa al mare di Mondello, che lo stregò nel 1969. Lenendogli la nostalgia di Praga e convincendolo a farsi adottare da zio Cesto Vycpalek. Nessuno in città gli chiede la promozione diretta, ma tutti la sognano, dopo anni di purgatorio. Zeman la ottiene al primo colpo, in un’annata romanzesca. Piena di euforia e di dolori. La squadra lo segue da subito, dando vita ad un gioco vertiginoso. Un folgorante filotto di vittorie viene spezzato dalla piaga biblica della neve, inedita a queste latitudini, che lo costringe a impugnare la vanga per liberare la pista atletica.

La morte di Mancini è poi una pugnalata crudele, inattesa. Seguita dall’agonia in campo di Morosini, a due passi dalla sua panchina. Traumi e ferite finiscono però col cementare il gruppo. In questa sera di fine maggio, sul prato fradicio di Marassi, il suo Pescara cancella la Sampdoria e sale in Paradiso. Romero, il portiere blucerchiato, è da incubo, come il suo omonimo creatore di zombie. Ne approfittano Caprari e Immobile. Poi il ragazzo romano si ripete, nel secondo tempo, con un gol d’autore, su lancio vellutato di Insigne. È il segnale: milioni di ghiandole lacrimali cedono, in ogni landa d’Italia,  in simultanea con quelle boeme. L’uomo di Praga torna dove gli spetta, senza aver mai rinunciato a se stesso. Ossessivo come una artista, ricercatore metodico dell’essenza pura del gioco, come Morandi cercava l’anima delle  bottiglie e Burri quella dei sacchi. Manda tutti in visibilio, inclusi i nemici più efferati. I complimenti più inattesi arrivano da Big Luciano. Li lancia dal suo scranno catodico “Ieri Moggi e domani”, mostra delle atrocità di Gold Tv,confortato dallo sguardo limpido dell’ex arbitro De Santis e dalla reliquia semovente di Pippo Franco. Zeman se li scrolla di dosso “Mi rovinano la giornata”. “Grande Pescara! E complimenti a Zeman che concquista un altra promozione. Dopo vent’anni” è il tweet di Gianluca Vialli. Una reazione scomposta, dall’ortografia incerta. Ancora bruciano le considerazioni boeme sulla lievitazione artificiale dei suoi polpacci. Ma  lui non è Moggi, il suo è uno sbuffo d’invidia più umano, meno protervo. È stato amato e non temuto, proprio come il Boemo. Vent’anni fa anche lui trionfava a Marassi e somigliava molto a quei ragazzini. Smilzo, ricciuto, felice. Allenato da un padre slavo come Boskov. Dalla parlata strana, quasi alla Zeman.

Nell’euforia generale, voci insistenti annunciano il ritorno trionfale del Boemo a Trigoria, tredici anni dopo,  in sostituzione dell’hombre vertical. “Er proggetto” riacquisterebbe fascino. A patto che questa volta lo si assecondi in tutto, a qualsiasi costo. Gli si comprino i giocatori che vuole, campioni o giovani promesse che siano, e li si costringa a massacrarsi sui gradoni, a seguirlo senza ostruzionismi. Se lo merita, ce lo meritiamo.


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